L’idea di trascorrere un po’ di tempo su un campo da golf, tra l’altro con il compito di coinvolgerla nel gioco, con una persona che non ha mai visto un driver o un putter in vita sua è sempre un po’ stuzzicante. Chi si crede profondo conoscitore della materia (spesso sopravalutandosi) si sente subito investito del ruolo del predicatore che deve creare nuovi adepti per quella stranissima setta rappresentata dai golfisti e tende a lanciarsi in monologhi dai quali emergono solo lodi sperticate e giudizi entusiasti su questo gioco. Siccome, data la lunga frequentazione di clubhouse e percorsi, conosco abbastanza come sono fatti i golfisti e pure i non golfisti, so bene quanto possa essere spesso irritante parlare di golf (soprattutto in certo modo) a chi non sa nulla di questo sport.
Lo so che quasi sempre lo si fa a fin di bene per cercare di “convertire” alla nostra religione un ateo del green, ma posso assicurare che uno dei modi per rendere antipatico questo gioco è quello di farselo spiegare da certi golfisti assatanati che parlano di address, stance, bogey, birdie, slice e via discorrendo, convinti che l’ignara vittima con cui stanno parlando comprenda ogni cosa.
Per questo quando mi hanno invitato a “Chef in Green” sul tracciato del Golf Club Brianza, un evento speciale dove un giocatore un po’ esperto avrebbe dovuto giocare con uno chef di prestigio, rigorosamente a digiuno di cose golfistiche, il primo pensiero che mi sono imposto è stato quello di non parlare necessariamente di golf con la persona che avrebbe giocato con me.
La formula della gara era piuttosto coinvolgente e semplice: il “golfista” della coppia giocava la buca fino ad arrivare in green e poi entrava in scena lo chef che aveva a disposizione tre colpi con il putter per provare a chiudere la buca. La mia idea, insomma, era quella di parlare di golf il meno possibile e di non andare oltre qualche inevitabile consiglio su come colpire la pallina con il putter. Stop. Al contrario pensavo, essendo una buona forchetta ma assolutamente negato nel muovermi tra i fornelli di una cucina, di essere io quello che doveva imparare qualcosa per migliorare la mia modesta cultura gastronomica da sempre impostata più sulla quantità che sulla qualità.
Così quando ho incontrato Gianni Tarabini, rinomato chef valtellinese che crea piatti deliziosi nella cucina del ristorante La Presef nell’agriturismo La Fiorida, avevo già in testa (forse per deformazione professionale) alcune domande e parecchie curiosità. Purtroppo il mio programma è andato subito a farsi benedire. “Mi spieghi come funziona questo gioco?” La richiesta di Gianni non ammetteva repliche. Così, tra un colpo e l’altro, ho cominciato a parlare di golf cercando di essere il “meno golfista” possibile. Non ho provato a insegnarli come si impugna il putter o come si deve colpire la palla per farla rotolare diritta in buca. Per questo ci sono i maestri. Ho cercato, invece, di spiegargli cosa piace a me di questo gioco pur avendolo conosciuto ben oltre gli “anta”.
<Il golf si gioca in posti bellissimi e già questo è un bel vantaggio – gli ho detto – Poi, però, ci sono golfisti e non sempre questo è un vantaggio, ma col tempo imparerai a sceglierli e allora il divertimento sarà assicurato.> Mi è sembrato che Gianni avesse la giusta curiosità, quella sincera, non quella di maniera che si usa in certe circostanze per rispetto del bon ton. Non so se le mie dissertazioni lo hanno annoiato o no, fatto sta che siamo arrivati alla fine della gara parlando sempre di golf senza che io abbia avuto la possibilità di chiedergli come prepara il suo “Lavarello del Lario” con misticanza e bottarga o il suo riso con vin brulè, mela e lepre. Magari glielo chiederò quando giocheremo insieme la prossima volta in un altro “Chef in Green” perché Gianni ha chiesto di fare squadra ancora con me. Evidentemente quello che gli ho raccontato del golf deve essergli piaciuto e vuole conoscere un altro capitolo della storia. Non so se diventerà un golfista grazie alla mia opera di persuasione, ma se solo dovesse pensare al golf senza farsi condizionare dai tanti luoghi comuni che in Italia lo accompagnano (e alla cui longevità contribuiscono proprio molti degli stessi golfisti) mi sentirei già gratificato a sufficienza.